Quando una decina di anni fa ho deciso che non avrei più messo piede in uno stadio (italiano) non era stato il calcio a disgustarmi, tant'è vero che continuo a vederne ben più di prima. Era stato il pubblico, le curve, i cori, gli striscioni, la tribalità ad ogni costo. Era un Inter-Roma di coppa Italia, c'ero andato non per lavoro ma per la curiosità di vedere dal vivo Totti e Cassano insieme. Uscii dopo mezzora, una volta per tutte. Era come se quella sera, peraltro non poi così diversa da tante altre, se non per me che avevo la guardia abbassata e la voglia di una partita senza prendere appunti, mi avessero improvvisamente alzato il sonoro: facendomi per la prima volta percepire l'assurdità di condividere un evento, ma anche uno spazio, con gente di una così spaventosa incultura sportiva.
Per questo non ho trovato nulla di strano nello striscione dell'altra sera ispirato alla tragedia di Superga. Né in altri più o meno osceni esposti qua e là in questi anni. Era la prima volta che il Torino giocava in quello stadio, poteva il comitato d'accoglienza perdersi il suo attimo di celebrità? No che non poteva. Tant'è vero che è finito su giornali e tv, in Italia e nel mondo, per la modica spesa di 10 mila euro inflitta dall'implacabile giudice sportivo, ma a carico ovviamente della società. Missione compiuta. In termini di comunicazione, che ai giorni nostri è quella che conta, il massimo risultato con il minimo sforzo.